Che Tullio Naldi sia il famoso “ultimo scalpellino di Lastra a Signa” è cosa ormai nota a gran parte dei lastrigiani e non! Che abbia scalpellato le colonne per la Villa di Bellosguardo, appartenuta in passato al celebre cantante d’opera Enrico Caruso, è noto anche questo. Che abbia realizzato numerosi oggetti di pregio per molte ville, residenze..della provincia fiorentina è un dato assodato.
Quello che però sfugge, forse, è il suo percorso di vita, iniziato nel 1926 e ancora in essere, tra un acciacco e una voglia matta di continuare a scalpellare quella pietra, che lo ha reso felice per quasi 90 anni.
Noi della Frosini Pietre lo abbiamo intervistato, chiedendogli di raccontarci com’è stata effettivamente la vita e quella di molti scalpellini che come lui hanno durato tantissima fatica e, oggi, sono scomparsi sotto una coltre d’indifferenza generale.
1) Ciao Tullio, per iniziare parlaci di te. Quando sei nato e dove? Quando sei diventato scalpellino e perché? Quando hai messo il primo piede in una cava?
<<Sono nato il 12 Luglio del 1926 a Lastra a Signa. Ero il terzo, perché avant a me c’erano un fratello e una sorella. Mia padre, Umberto, era scalpellino e così come lui mio nonno e il bisnonno Gaetano. La mamma, Maria, era casalinga. Sono sempre andato in cava, cominciando a lavorare nel 1939. Il primo piede l’ho messo quando ero piccino, sicuramente prima delle elementari>>.
2)Come era la tua giornata lavorativa? Cosa facevi solitamente? Cosa ti portavi, da mangiare, in cava? Come ti tenevi compagnia?
<<Andavo la mattina in cava, a piedi, e lavoravo sin da subito fino a sera. Solitamente si cominciava con le soglie e i lastrici, poi man mano che si cresceva si facevano gli scalini e tutti gli altri lavori. L’80% degli scalpellini si fermava agli scalini. Io, dopo aver fatto soglie e lastrici, a 14 anni feci il primo scalino che andò alle case popolari della Piaggio a Pontedera. Parlo del 1940. Successivamente ho realizzato qualsiasi cosa. In cava mi portavo poco da mangiare, spesso gli avanzi della sera come le patate o lo spezzatino, mentre a volte la mi mamma mi coceva l’ova. Non portavo il vino, anche perché s’aveva un pozzo d’acqua, in cava, tanto bona che dissetava anche quelli delle cave limitrofe. Non ho mai avuto la corrente elettrica. Fino al 1946 mi son tenuto compagnia con un ragazzo che lavorava insieme a me; chiaccheravamo perlopiù. Seguentemente cantavo. Ho sempre cantato le canzonette dell’epoca e vari pezzi d’opera come quelle di Puccini, ad esempio la Tosca o Turandot>>.
3) Recentemente ho letto un libro dal titolo “Povertà e fatica; la vita degli scalpellini”. Era davvero così? Puoi spiegarci quanto lavoravi in un giorno e quanto eri pagato?
<<Sì, c’era molta povertà; molti operai guadagnavano pochissimo tipo 13 lire/giorno avanti guerra e, successivamente, anche 50 lire/giorno perché c’era più lavoro, bisognava ricostruire. Noi, ad esempio, ricostruimmo la Villa di Bellosguardo (www.museoenricocaruso.it), mettondoci 4 anni a rifare ogni cosa. Al giorno lavoravo anche 12 ore d’estate, mentre d’inverno s’arrivava a 8 con fatica, per via della luce che finiva presto. D’estate s’aveva un po’ di riposo sul Mezzogiorno>>.
4) Potresti dirci quali sono i passaggi che da un masso di pietra portano a un oggetto finito? Chi svolgeva codesta attività e con quali strumenti?
<<C’erano tre tipi di lavoro che si facevano con persone differenti per ognuno di questi, senza che nessuno interferisse nel compito di un altro. Il primo l’era lo scavare fatto dai massaioli con le subbie, le biette di ferro, i punciotti e il piccone, il secondo l’era lo sbuzzare(dare la forma che si vuole al masso) realizzato dagli sbuzzatori con le subbie e il terzo passaggio l’era il rifinire, svolto dai rifinitori con lo scalpello. Io facevo tutte e tre le lavorazioni, perché ero e sono solo>>.
5) La Pietra Serena è un’arenaria tipica di queste zone. Sai dirmi perché si chiama Serena? E quale differenza c’è con la Pietra Bigia?
<<Si chiama Pietra Serena perché l’è il colore sereno. Noi s’è sempre detto così, ma il vero nome l’è Pietra Arenaria. La Pietra Bigia l’è tra masso e masso l’infiltrazione dei secoli che un masso ha. Più largo l’è tra masso e masso più bigio c’è>>.
6) Hai da raccontarci qualche aneddoto, qualche storia, qualche leggenda circa il mestiere che hai svolto?
<<Ho visto alla cava arrivare le frane. Quando un monte frana, la t’avverte. Prima di venire giù tutta quella roba, comincia a venire giù a piccoli pezzetti di pietra, via via più grossi e poi vedi…. . Io mi sono ritrovato due volte con frane in cava. A noi, nel 1940, un palo da leva del mi bisnonno rimase sotto la frana. Si ritrovò dopo 6 anni, nel 1946, e poi codesto palo me l’hanno rubato dopo l’alluvione, nel 1966. Mi dispiace ancora per quel palo da leva…>>.
7) Ancora oggi continui a lavorare, a scalpellare. Da dove arriva tutta questa energia che hai? In definitiva che rapporto hai avuto con la Pietra?
<<Non saprei, credo dalla natura e dalla salute che ho avuto sinora. Il mio lavoro è stato una grande passione. La pietra è stata un’amica per me. I lavori che realizzo, prima devono piacere a me e poi ai clienti. Ho sempre avuto molto rispetto nel lavorare la pietra. Mia moglie, Nicoletta, l’è stata importante. Lei l’è una critica feroce. Lei se c’è un piccolo difetto, la l’ho vede subito>>.
Nel terminare l’intervista ringraziamo Tullio per la sua disponibilità e la sua simpatia e invitiamo ogni lettore a seguire attentamente sia il blog che riserverà altri articoli di questa tonalità, sia la Frosini Pietre che con tenacia sta affrontando questo inizio d’anno nuovo.